L’immagine che potete vedere qui sopra è un esempio molto chiaro delle difficoltà, prima dell’avvento della tecnologia digitale, che uno stampatore doveva affrontare per arrivare ad ottenere una bella stampa: sovraesposizioni e sottoesposizioni localizzate, ottenute mascherando o sovraesponendo le diverse aree dell’immagine, inquadrature per migliorare l’impatto generale, molti provini prima di affrontare la stampa completa; scelta del tipo di carta, che aveva un grado di contrasto diverso, uno spessore diverso, e una superficie specifica: poteva essere lucida, semilucida, oppure completamente opaca.
La stampa diventava quasi un’icona del soggetto fotografato, paesaggio, ritratto o still-life che fosse. La qualità era sinonimo di attenzione e concentrazione, il fotografo e lo stampatore dovevano impegnarsi seriamente durante la ripresa e la stampa, per sopperire ai limiti di una tecnica complessa, ostica, instabile, dipendente da una buona manualità e dalla capacità di compensare, con sensibilità ed esperienza, l’imprecisione della chimica. Il fotografo lavora su una frazione di secondo, lo stampatore sulle ore, e la sintesi di queste “attenzioni”, di natura molto diversa, creano una fotografia di qualità.
Oggi si fotografa tutto e di tutto, istintivamente. Pensare è ritenuto quasi un’errore, limita la “freschezza” del momento, la cosiddetta “spontaneità”, la “naturalezza”. Spero che tra qualche tempo i limiti di questa moda vengano a galla, e si ritorni a scattare meno e meglio. Forse anche un gesto a prima vista modesto come lo scattare una fotografia può contribuire a farci scendere o salire un gradino nella scala evolutiva delle nostre esistenze.